Sebbene Nicephore Niepce sia accreditato come l’inventore della fotografia (e quindi definibile come padre della fotografia moderna), egli sperimentò le prime tecniche fotografiche durante gli anni 1820 (la prima fotografia sopravvissuta risale al 1826 circa), le sue fotografie richiedevano un tempo di esposizione estremamente lungo e i risultati erano imperfetti. Louis Daguerre perfezionò il lavoro di Niepce durante gli anni 1830 con la creazione del dagherrotipo che richiedeva solo pochi minuti di esposizione e produceva un’immagine nitida e chiara. I dettagli di questo processo furono resi noti nel 1839 e questa data è considerata l’inizio della fotografia come mezzo di comunicazione. Le scoperte e gli sviluppi successivi, compresi quelli di Henry Fox Talbot, continuarono a rendere la fotografia più facile e accessibile.
Nelle sue prime forme, la fotografia era vista come uno strumento scientifico e il suo primo uso pratico fu in botanica e archeologia. Nonostante le innovazioni nel campo della fotografia artistica questo uso rimase importante con fotografi come Eadweard Muybridge, noto per i suoi studi sul movimento negli anni 1870, continuando a sfruttare le sue applicazioni scientifiche. Quando il mezzo si diffuse e divenne più accessibile, i fotografi iniziarono a sperimentare, producendo ritratti e tableaux, questi ultimi spesso ispirati da opere storiche e letterarie. Ci furono diverse figure chiave in questo movimento, tra cui John Edwin Mayall, Julia Margaret Cameron, Charles Dodgson (Lewis Carroll) e Oscar Rejlander nel Regno Unito. Negli Stati Uniti fotografi come F. Holland Day, Alfred Stieglitz e Edward Steichen aprirono la strada, con Stieglitz che introdusse la fotografia nelle collezioni dei musei e nelle gallerie d’arte.
Come parte del tentativo di far riconoscere il loro lavoro accanto ad altre forme d’arte più affermate, questi fotografi adottarono il linguaggio e i valori delle belle arti. Questo può essere visto nel libro di Henry Fox Talbot The Pencil of Nature (1844). Questa fu una delle prime raccolte di fotografie ad essere pubblicata commercialmente e ogni immagine era accompagnata da una breve descrizione che spiegava la scena e i processi coinvolti nella sua cattura. Il libro utilizza la terminologia artistica e dimostra chiaramente come Talbot ha inteso la fotografia moderna in termini di immagine dipinta.
All’inizio sembrava che la fotografia tradizionale non si adattasse agli obiettivi artistici dei futuristi italiani che erano in preda alla velocità, al dinamismo e all’energia violenta. Fu solo con l’invenzione del “fotodinamismo” nel 1911 che il Futurismo diede il proprio contributo alla fotografia moderna. Il termine fu introdotto dai fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia che usavano la loro macchina fotografica per indurre un senso di “vertigine visiva” creando movimento fotografico attraverso esposizioni multiple. Infatti, Anton aveva pubblicato la prima di tre edizioni del suo libro Fotodinamismo Futurista nel 1911 e le sue teorie furono ben accolte nei circoli fotografici e ampiamente adottate da altri artisti europei d’avanguardia. Questi primi esperimenti di movimento e ritrattistica – Fortunato Depero, per esempio, produsse una serie di autoritratti “gestuali” durante la prima ondata – definirono più o meno la fotografia futurista fino a quando Marinetti e Tato pubblicarono il “Manifesto della fotografia futurista” nell’aprile 1930.
Il manifesto diede vita a un decennio che è ampiamente considerato il più produttivo nelle arti fotografiche italiane. Fu un decennio che vide la fotografia fondersi con altre forme d’arte futuriste come la danza, la pittura e la performance. Filippo Masoero, per esempio, sviluppò nuove concezioni di spazio e movimento fotografando le città italiane dalla cabina di un aereo. E, come altre scuole europee, anche i futuristi erano attratti dall’immagine in movimento: “il mezzo espressivo più adatto alla complessa sensibilità di un artista futurista”, come diceva il suo manifesto. Anche se rimane poco del primo cinema sperimentale futurista, il melodramma futurista Thais di Anton Bragaglia del 1917 è una testimonianza ampiamente esposta dell’eredità cinematografica del movimento.
