La fotografie editate sono sempre più popolari, il potere della post produzione diventa ogni giorno più importante. Il tutto nasce dalla sempre maggiore accessibilità della tecnologia adoperata per l’elaborazione delle immagini, situazione che probabilmente porta ad un graduale spostamento della percezione umana di quella che chiamiamo “arte fotografica”. Il problema, come spesso accade quando ci si imbatte in immagini modificate, è capire o meglio definire i contorni dell’arte fotografica: quando si sconfina dalla fotografia? Quando la modifica stravolge del tutto il concetto di fotografia?
Il potere della post produzione: Una reale fotografia di paesaggio?
Le immagini digitali di paesaggio maggiormente diffuse oggi sul web sono assolutamente interpretazioni del pensiero del filosofo Jean Baudrillard (1929-2007), ovvero ciò che un fotografo ha realmente visto con gli occhi della mente. Sappiamo come la percezione fisica di un determinato fotografo può essere diversa da quella di qualsiasi altra coppia di occhi fisici, ma cosa dire circa la crescente popolarità di questo fenomeno, dell’interpretazione delle immagini stesse? Una citazione di Ansel Adams, forse il più influente fotografo di paesaggio mai esistito, chiarisce un po’ il pensiero in questione: “Sono sicuro che il prossimo passo sarà l’immagine elettronica, e spero di vivere per vederla. Confido che l’occhio creativo continuerà a funzionare, qualunque siano le innovazioni tecnologiche che si potranno sviluppare.”
Naturalmente Ansel Adams aveva ragione, nel senso che l’immagine elettronica avrebbe portato molte possibilità e opzioni sul tavolo del fotografo. Poiché i computer sono diventati disponibili per la maggior parte della popolazione mondiale, tutti siamo in grado di sentirci “abili” in materia digitale. Allo stesso modo anche i software di editing fotografico sono diventati sempre più accessibili e facili da usare, al fine di “abilitare” realmente chiunque all’editing fotografico. Quando le macchine fotografiche digitali sono state lanciate, molte di esse erano in grado di salvare le immagini “solo” nel formato JPEG, un formato di file a 8 bit che converte i dati in una rappresentazione visiva su un dispositivo in grado di visualizzarlo. Con l’evoluzione della tecnologia, anche le macchine fotografiche sono evolute e attualmente la maggior parte (soprattutto le reflex) sono capaci di fotografare e salvare in formati (RAW) che hanno una profondità di bit molto maggiore a quella del JPEG, ovvero sono in grado di catturare molte più informazioni di quante visualizzabili con il JPEG. Peccato che sia i monitor che il web sono ancora basati (di massima) sulla visualizzazione di immagini a 8 bit, il che è limitante ma apre la porta, appunto, all’editing digitale.
Principalmente la questione è questa: diversi fotografi preferiscono elaborare le immagini al di fuori del processo che già la fotocamera sarebbe in grado di compiere. In questo modo il fotografo è in grado di controllare più di quello che il pubblico vuole vedere. È questo il motivo per cui salviamo le immagini in formato RAW. Ma in definitiva come si fa a creare un’immagine che non è stata digitalmente modificata partendo da un file RAW?
Prendiamo spunto da una dichiarazione apparsa sul National Geographic: “La nostra più grande richiesta è che le foto rimangano fedeli alla tua visione personale e a quello che hai visto. Si prega di evitare una pesante elaborazione. Vogliamo vedere il mondo attraverso i tuoi occhi, non attraverso l’uso eccessivo di strumenti di editing […] Non danneggiare o manipolare il soggetto o il suo ambiente per il bene della creazione di un’immagine.”
Secondo la rivista, quindi, è essenziale rispettare il soggetto o il suo ambiente. Ma esattamente di cosa parliamo quando scriviamo “pesante elaborazione”? Il National Geographic chiarisce il concetto delineando alcune delle tecniche utilizzate spesso dai fotografi. Mentre risultano accettabili, quindi consentiti, operazioni quali scherma e brucia, le operazioni di ritaglio risultano essere già un plus, quindi da evitare. Tollerabili sono invece le immagini HDR. Esempio: per partecipare al loro concorso fotografico del 2014, non era consentito l’utilizzo di un’alta gamma dinamica nelle fotografie. Tuttavia l’anno successivo la sovrapposizione di immagini multiple allo scopo di accentuare i dettagli di ombre e luci su immagini ad alto contrasto fu consentita. La tecnica del time stacking, o tempo intervallato, processo utile per catturare il cielo in un momento diverso da quello in primo piano, non era invece permessa.
Vi è un’altra citazione di Ansel Adams da prendere in considerazione prima di cominciare ad analizzare il pensiero di fotografi contemporanei, quali Ted Gore: “Nessun uomo ha il diritto di imporre ciò che altri uomini dovrebbero percepire, creare o produrre, ma tutti dovrebbero essere incoraggiati a rivelare se stessi, le loro percezioni e le emozioni per aumentare la fiducia nel proprio spirito creativo.”
Tra i fotografi più influenti dei nostri tempi Ted Gore è uno dei nomi più pesanti, nominato del 2015 USA Landscape Photographer of the Year. Gore ha prodotto, durante la sua carriera, una grande quantità di opere fotografiche, tutte ben differenti dalle tradizionali “vedute” panoramiche, utilizzando un insieme di tecniche capaci di superare i limiti della visione umana e le capacità della fotocamera digitale.
La foto forse più importante nel portfolio di Gore è Dirty Quarrel (la potete visionare qui), una foto mozzafiato scattata in Patagonia durante una tromba d’aria mattutina che lo ha coinvolto durante un’escursione di due miglia lungo il letto di un fiume roccioso, escursione che lo ha condotto fino ad una zona sconosciuta che non sapeva esattamente come raggiungere. E proprio a causa dei differenti tentativi, strade percorse, ritorni sui suoi passi, Gore ha avuto la fortuna di incappare nella situazione ideale per una foto unica, trovandosi al posto giusto proprio quando la luce sul monte stava esplodendo. Inoltre, un pezzo di ghiacciaio stava scivolando verso il basso, generando una piccola cascata dal ghiacciaio stesso fino al lago sottostante.
Per quanto riguarda la visione umana contrapposta alle capacità della fotocamera, Gore sapeva che pur non avendo la possibilità di realizzare un unico scatto comprendente la luce sulla montagna e il ghiaccio, poteva contare sulla post elaborazione di differenti immagini, una esposta sulla montagna ed una sul ghiaccio. In particolare, la doppia esposizione non era possibile da realizzare nello stesso momento, in quanto il ghiacciaio non riceveva la luce diretta durante la mattina. Realizzate una serie di esposizioni in differenti momenti temporali, Gore è riuscito ad impostare l’immagine finale adoperando le immagini scattate con differenti esposizioni e quindi “catturando” l’intera gamma di colori. In pratica, Gore è riuscito a ricreare, al computer, la scena che ha vissuto, senza però avere avuto modo di catturarla in quello specifico momento a causa di vincoli di tempo e alle limitazioni fisiche e fotografiche.
La seconda foto di Gore da ricordare è “Flection” (la trovate qui). Il fotografo era sul corso dell’Oneonta Gorge quando ha iniziato a scendere e ha cominciato a guardare il riflesso della luce sulle pareti del canyon appena sopra la superficie delle acque poco profonde. La curvatura, le increspature nell’acqua e le riflessioni in questa immagine sono veramente impressionanti. Notò che alcune grandi rocce appena sotto la superficie davano vita ad un particolare riflesso “piegato”, dovuto da delle interruzioni del flusso d’acqua. Attivò la fotocamera in modalità live view e la portò fino alla superficie dell’acqua, al fine di ottenere una prospettiva ancora più accentuata. La stretta prospettiva ed il grandangolo della lente hanno esagerato ulteriormente le “curve” presenti nella scena: Gore sapeva di avere qualcosa di interessante dal punto di vista compositivo.
La realizzazione di questa foto è stata però ancora più complessa di Dirty Quarrel. Considerate che la superficie inferiore del filtro montato sull’obiettivo era letteralmente in acqua. Inoltre, il fotografo ha dovuto catturare una serie molto complessa di immagini tramite la tecnica del focus-stacked al fine di mettere a fuoco sia il primo piano, sia ciò che vi sta dietro. A causa della scarsa illuminazione nel canyon, Gore ha dovuto anche fare i conti con problemi legati alla velocità dell’otturatore. Tempi di posa più corti sembravano avere un migliore effetto, ma non sarebbero stati possibili senza aperture maggiori e ISO più alti. Gli scatti a ISO 1600, però, avrebbero conferito minore qualità al file, mentre l’uso di aperture più ampie avrebbero reso il “focus stacking” più difficile a causa di profondità di campo ristretto. Oltre a questo la forma e il carattere generale della riflessione sarebbe cambiato ad ogni esposizione.
Gore, al fine di ottenere il risultato voluto, ha utilizzato molte esposizioni, soprattutto per ottenere la riflessione più convincente in ogni punto di messa a fuoco. In totale Gore ha usato un totale di circa 18-20 file raw per ottenere il risultato finale. Quindi, in termini della personale visione di Gore rispetto ai limiti tecnici della fotocamera, questo è il caso più estremo di utilizzo di molte tecniche nell’elaborazione per superare tali limitazioni e realizzare una visione creativa. Onestamente, se Gore non avesse seguito questa strada, uno scatto del genere non sarebbe stato possibile. Nuovamente, il potere della post produzione diventa preponderante.